INTERVISTA PUBBICATA DAL QUOTIDIANO L'AVVENIRE – 23 aprile 2010

Mirak-Weissbach: Armeni, memoria e riconciliazione


«Ho preso in considerazione tre guerre del XX secolo nelle quali hanno avuto luogo stermini che di fatto assumono il volto della “pulizia etnica”. Ho osservato questi eccidi attraverso gli occhi dei bambini che ne sono stati vittime e, per conseguenza, sono spinti verso il desiderio di vendetta. Il mio scopo? Risvegliare una coscienza nuova dei drammi avvenuti e, attraverso la loro comprensione, volgere il rancore in capacità di dialogo, interrompere la nemesi della catastrofe, mostrare che il “nemico” è altro, non è “l’altro”».

Muriel Mirak-Weissbach, americana di origini armene, ha conosciuto solo da adulta la verità della propria famiglia: entrambi i genitori che, ancora infanti, fortunosamente scampano al massacro del 1915 e, grazie ad alcune famiglie turche (qui sta il nodo: la Turchia ufficiale massacra gli armeni, alcuni cittadini turchi a loro rischio li salvano), riescono a rifugiarsi oltreoceano. La memoria dei massacri riaffiora solo quando la vecchia madre osserva le immagini dei bimbi iracheni tra le macerie della Prima guerra del Golfo: allora la figlia giornalista l’incoraggia a metterla nero su bianco. Lei, americana cresciuta in mondo così diverso, decide che deve fare qualcosa per quei piccoli che assomigliano tanto ai propri genitori quando erano bambini.
E dirige un Comitato per salvare i bambini d’Iraq, sostenuto anche dall’abbé Pierre. Negli anni successivi, dopo il fallimento dell’accordo di Oslo (1993), cercherà di prestare aiuto anche ai palestinesi. Dalle esperienze dirette della Mirak-Weissbach nasce un volume di memorie e di meditazione: Through the Wall of Fire. Armenia, Iraq, Palestine. From Wrath to Reconciliation (“Attraverso il muro di fuoco. Armenia, Iraq, Palestina. Dal furore alla riconciliazione”).
«Ci sono conflitti che perdurano anche se sono cominciati un secolo fa. Le persone sono intrappolate da pregiudizi e si tramandano l’odio. Ma se cerco di capire da che cosa originano queste guerra, trovo solo le logiche geopolitiche dei vecchi imperialismi ottocenteschi, che usano i popoli come pedine. Se un popolo crede di odiarne un altro, è perché non lo conosce: non sa guardarlo in faccia. È cruciale riuscire a cambiare tale percezione soggettiva del nemico, e questo richiede un radicale impegno emotivo oltre che intellettuale. Il titolo ricorda il passaggio descritto da Dante al culmine del Purgatorio: attraverso il muro di fuoco per poter giungere alla sua Beatrice».

E concretamente che si può fare?
«Un esempio lampante è quanto hanno messo in moto Daniel Barenboim, musicista israelo-argentino, e il compianto intellettuale palestinese Edward Said con la West Eastern Divan Orchestra, in cui suonano fianco a fianco giovani arabi e israeliani i quali, nelle armonie cui danno vita, scoprono quanto le loro culture gli impedivano di vedere: si può stare assieme, lavorare e gioire assieme. È anche un problema di conoscenza: pochi arabi sanno dell’olocausto degli ebrei; pochi israeliani sanno delle sofferenze dei palestinesi cacciati dalle loro case nel ’48».

Tra armeni e turchi nulla è cambiato?
«Molto è cambiato. Dopo gli scontri tra Russia e Georgia sull’Ossezia (2008) si è parlato di nuovi tracciati attraverso l’Armenia per il trasporto di gas e petrolio. Forse questo ha favorito la riapertura del dialogo con la Turchia: ci sono stati incontri sportivi e diplomatici; nel 2009 è stato firmato un protocollo che prevede di riaprire le frontiere, di stabilire rapporti diplomatici e di istituire una commissione d’inchiesta sugli eccidi del ’15: in Turchia questo è ancora tabù. Gli armeni della diaspora sono contrari a questa commissione perché i fatti sono già accertati da tempo: su una popolazione di circa tre milioni oltre la metà fu sterminata dai Giovani turchi. Ma è importante discuterne: recuperare la memoria, conquistare la verità richiede una dura lotta. Ricordo Hrant Dink, giornalista che si impegnò nel dialogo tra turchi e armeni. Fu ucciso il 19 gennaio del 2007 da un estremista, ma oggi la sua opera è continuata da una fondazione che porta il suo nome. Molti intellettuali turchi operano per il riconoscimento del genocidio e per un dialogo di pace. Anche il nipote di Cemal Pascià, uno dei 3 dirigenti dei Giovani turchi attivi nel genocidio del 1915, Hasan Cemal, ha indipendentemente confermato le responsabilità del nonno e ne ha parlato recentemente negli Stati Uniti, in convegni degli Amici di Hrant Dink. Gesti di questo genere sono fondamentali».

Quando raccolse aiuti per i bambini iracheni, non trovò tutte aperte le porte all’Onu…
«Sadruddin Aga Khan si impegnò personalmente, e lo stesso fece l’ex segretario Onu Kurt Waldheim. Compimmo diversi voli per portare medicinali. Portammo in Europa e negli Usa molti bambini feriti e li riportammo in patria dopo averli curati. Alcuni ostacoli furono posti dagli esponenti di chi aveva lanciato la guerra. Era difficile reperire gli aerei da trasporto: proponemmo di usare apparecchi civili iracheni, ma ci fu vietato. Tuttavia riuscimmo nell’intento: certo, si sarebbe potuto fare di più. Ricordo una madre americana che voleva mandare orsacchiotti di peluche perché i bambini iracheni potessero giocarci e non ci riuscì: il comitato Onu per le sanzioni lo vietò. Sono i paradossi di crisi belliche di questo tipo. Bisogna mettere in campo tanta buona volontà. Offrire alla gente la possibilità di conoscersi e collaborare. La passione delle persone può superare gli ostacoli delle burocrazie e delle logiche del conflitto. Non c’è altra via d’uscita».

Leonardo Servadio